Parlare di etica nello sport, e in particolare in atletica leggera, potrebbe a prima vista sembrare un paradosso.
Come si fa infatti a chiamare in causa la parola “etica” in un contesto, quale quello sportivo, dove i principi fondamentali sono quelli della lealtà, dell’amicizia ma soprattutto della equità, del rispetto dei compagni, degli avversari e delle regole.
L’etica infatti viene riconosciuta e definita come l’insieme delle regole e dei principi che regolano la condotta umana.
Nel campo sportivo le regole sono state “inventate” dai padri fondatori di ogni singola disciplina, affinate attraverso decenni di esperienza, modificate nel tempo per adeguarle agli sviluppi della tecnologia sempre più invasiva, e infine corrette sulla scorta dei comportamenti degli atleti registrati sui campi di gara.
Lo sport, a prescindere dall’aspetto agonistico, é scuola di vita dove si impara a convivere con gli altri, a confrontarsi con essi, a prepararsi a conseguire un risultato che si può anche non raggiungere. Una scuola di vita nella quale si forgia il carattere del praticante anche attraverso il gusto amaro della sconfitta ancorché della gioia della vittoria. In questa scuola oltre che il fisico si forgia quindi anche il carattere e il praticante è chiamato ad imparare a gestire situazioni difficili e a controllare le proprie emotività.
Lo sport ha un valore sociale molto alto. Mi direte che certi spettacoli ai quali anche di recente abbiamo assistito, non sono certo un esempio che avvalora e risponde a questo concetto, ma anzi fa molto riflettere sul perché di questa mancanza di risultato sociale. Le risposte a questo quesito possono essere molte e tutte portatrici di un contributo che anziché aiutarci a risolvere il problema aumenta i nostri interrogativi.
Abbiamo accennato alle regole. Le regole sono fondamentali, così come il loro rispetto, per fare si che un eventi sportivo abbia una gestione credibile e corretta. Ma è altresì importante che le regole siano fatte rispettare seriamente ed equamente.
In uno sport composito come l’atletica leggera dove le specialità sono molteplici e distinte fra maschi e femmine, le regole sono numerose e in continua evoluzione rispetto ai tempi e alle attrezzature impiegate.
Esse nacquero insieme alle due grandi organizzazioni che furono create ai fini del 1800: la Amateur Athletic Association inglese e la Amaterur Athletic Union statunitense. Nel 1912, dopo i Giochi Olimpici di Stoccolma, si costitì la I.A.A.F. – International Amateur Athletic Federation, che dette vita al primo Regolamento Tecnico Internazionale, valido per tutti i Paesi aderenti.
L’attività sportiva in genere, e quella dell’atletica in particolare, si sviluppò principalmente nei college universitari e quindi fra gli appartenenti alle classi sociali più agiate e benestanti. Non a caso, infatti, i Giochi Olimpici, concepiti e rifondati da Pierre De Coubertin, furono riservati ai “dilettanti” cioè a coloro che per ceto sociale, per censo, e soprattutto per reddito, potevano permettersi di impegnare il tempo libero in una attività sportiva. Ecco quindi che nello sport dilettantistico, e poi olimpico, il concetto di rispetto delle regole, di rispetto dell’avversario e di sviluppo di nobili rapporti fra compagni ed avversari era una caratteristica intrinseca alla natura di tale attività. Ecco quindi che nacque e si formò il concetto di “fair play”.
Per far rispettare le regole ogni Paese organizzò un proprio corpo specializzato di giurati, detti appunti giudici di gara.
A differenza di altri sport dove il giudice, o meglio l’arbitro, ha un compito prevalentemente “repressivo”, atto cioè a punire e sanzionare chi viola le regole, in atletica il compito precipuo del giudice è quello di far si che tutti i concorrenti siano messi nelle stesse condizioni per esprimere le loro capacità atletiche al meglio e, ovviamente, nel rispetto delle regole.
A parte alcune specialità o funzioni dove il giudice con il suo comportamento può influenzare il risultato (mi riferisco alla marcia e alla partenza nelle gare di corsa), nelle altre specialità la funzione del giudice è praticamente quella di un notaio che registra, certifica e ufficializza la prestazione e la rende credibile e vera, nel caso di evento internazionale, a tutto il mondo.
L’assenza di un giudice che reprime, ma che si limita a sanzionare gli eventi realizzati con infrazione certa delle regole, fa si che l’etica comportamentale degli atleti sia meno determinante nel giudizio che in altri sport, dove, cito per esempio gli sport di contatto (calcio, rugby, basket su tutti), la violazione delle regole è soggetta alla interpretazione dell’arbitro, ma può essere influenzata dal comportamento degli atleti che in alcuni casi può addirittura sfiorare la fraudolenza.
Mi riferisco ad esempio a quei calciatori che colpiti al petto da un avversario, si portano le mani al viso cercando di indurre così l’arbitro a valutare un fallo in maniera diversa da quanto in realtà accaduto.
Ma l’atletica, in quanto sport individuale, racchiude in se valori che si esaltano attraverso l’etica comportamentale dei suoi protagonisti.
Basta osservare le fasi successive ad un arrivo in una gara di corsa, dove il vincitore dopo aver tagliato il traguardo torna sui suoi passi e va ad abbracciare o stringere la mano agli avversari battuti.
Ci sono episodi nella storia dell’atletica che hanno portato grandi contributi a quello che oggi continua a essere definito “fair play”.
A Berlino nel 1936 durante i Giochi Olimpici, Jesse Owens il fenomenale campione americano primatista mondiale in carica di salto in lungo, stava per fallire la qualificazione non riuscendo a controllare la rincorsa nonostante l’avesse accuratamente misurata.
Fu il tedesco Lutz Long, il più pericoloso dei suoi avversari, a fargli notare che il vento o un altro atleta distrattamente, aveva spostato la tuta che Jesse aveva posto a segnare il punto di inizio della rincorsa. Owens corresse il segnale, si qualificò e poi vinse la gara davanti a Long. Fra i due nacque così una grande amicizia che durò anche dopo la morte che di lì a poco colse il tedesco impegnato a fronteggiare lo sbarco americano sulle coste della Sicilia.
Un altro episodio di grande fair play vide protagonisti due atleti italiani. Siamo nel 1994 a Helsinki dove si disputa la 16° edizione dei Campionati Europei. Durante la disputa della finale dei 3000 metri siepi, alla quale parteciparono ben tre atleti azzurri: Lambruschini, Panetta e Carosi, successe che Alessandro (Lambruschini) ebbe la disavventura di cadere nella discesa da un ostacolo e rimase fermo a terra dolorante. La sua gara sarebbe terminata in quel momento sfortunato, se Francesco Panetta, anche lui in lizza per una medaglia, non si fosse reso protagonista di un grande gesto di solidarietà. Fermò per un attimo la sua corsa ed aiutò il compagno di squadra a rialzarsi, correndogli poi a fianco non smettendo di incitarlo finché i due non riuscirono a rientrare nel gruppo dei primi.
Alessandro Lambruschini così rinfrancato riprese il comando della gara e vinse un meritatissimo titolo europeo.
Tanti sono i gesti di etica morale di cui gli atleti si sono resi protagonisti. L’ultimo in atletica è proprio di questi giorni. Le agenzie specializzate hanno battuto una notizia che ha uno straordinario sapore deamicisiano.
Voi sapete che la staffetta 4x100 italiana agli Europei di Barcellona disputatisi nell’agosto scorso, ha stabilito il primato italiano della specialità conquistando anche una medaglia d’argento di grande spessore tecnico.
Voi tutti sapete pure che le federazioni in genere mettono a disposizione dei medagliati premi in denaro. Così è stato anche per la F.I.D.A.L. che ha stanziato un premio di 2.500 euro per ciascuno dei quattro staffettisti, escludendo però ingiustamente le due riserve.
Gli staffettisti sono un gruppo di amici molto affiatato ai quali il provvedimento federale di esclusione dai premi delle riserve non è andato giù. Ne a loro e neppure alla stragrande maggioranza degli appassionati.
Ebbene uno degli staffettisti, il siciliano Emanuele Di Gregorio, ha fatto un gesto molto significativo, dichiarando che avrebbe diviso il suo premio con i due compagni di squadra esclusi.
Emerge da questo episodio che la lealtà non la si può insegnare. E’ una componente del carattere, per cui una persona sceglie di obbedire a particolari valori di correttezza, amicizia e sincerità anche e, soprattutto, nelle situazioni difficili.
L’etica sportiva dovrebbe ergersi anche come barriera insuperabile e impedire che l’uso di sostanze illecite abbia ingresso nei nostri spogliatoi, aiutando atleti moralmente deboli e sicuramente anche male consigliati, a mistificare le loro prestazioni violando quei principi di serietà e lealtà che sono alla base della pratica sportiva.
Gustavo Pallicca
Pistoia, 20 novembre 2010
III Congresso Panathlon International – Club Pistoia-Montecatini
Nessun commento:
Posta un commento